di Roberto Fiorini
Esce “E’ qui che verremo ad abitare” di Carlo Banchieri edito la Edizioni La Gru e dopo aver letto il suo precedente romanzo “Mimosa non è un fiore” che mi ha avvolto con un intimo velo di delicatezza capace di trasformare la fragilità in energia, non potevo non raggiungerlo per porre Lui alcune domande.
Ciao Carlo, con il tuo terzo romanzo Mimosa non è un fiore (Edizioni La Gru) hai raccontato la storia di una madre che lotta per crescere sua figlia, una donna sola e chiusa in sé stessa in una città ferita. Una storia davvero molto intensa, di speranza e di rinascita. Un romanzo che grazie al passaparola è riuscito ad entrare nel cuore di moltissimi lettori.
“È una storia che ho scritto e vissuto con estrema intensità e, una volta finito, mi è parso, per la prima volta, di aver scritto la storia che avrei sempre dovuto scrivere. Negli ultimi anni ci sono state situazioni speciali e drammatiche nella mia vita che mi hanno portato a dar vita a questo libro. Farlo nella cornice di una Livorno straziata dall’alluvione è stato come un bisogno, qualcosa di naturale. La solitudine, l’indifferenza, la vita che va oltre l’apparenza delle cose, il distacco, sono tutti temi che cerco di affrontare“.
Adesso arriva “E’ qui che verremo ad abitare” pubblicato sempre con Edizioni La Gru, un libro di poesie che decidono di uscire da un cassetto. Poesie che parlano di vita. Poesie che in qualche modo parlano di Te?
“Questo libro, È qui che verremo ad abitare, è un po’ come una piccola luce che combatte contro ciò che è già svanito e intanto cerca di affrontare il domani. C’è parecchio dei luoghi in cui ho vissuto, Livorno e Viareggio, del partire e del senso di abbandono, ci sono versi che sono stati riportati alla vita da chissà dove e pensati per fermare momenti particolari del mio passato come l’incontro con Francesca e l’arrivo dei miei figli. Alcune poesie sono state scritte quando vivevo i giorni con un senso profondo di sconforto, altre quando ho scoperto di avere una speranza che non vuole mollare la vita e altre ancora per il bisogno di dire ciò che di bello c’è stato, ma soprattutto che c’è ancora oggi“.
Quattro libri in dieci anni, Sulla strada per Olmo Antico del 2012, Un mondo imperfetto e altri racconti del 2013, e poi Mimosa non è un fiore del 2021 ed adesso la raccolta di poesie. Mi perso qualche cosa?
“Le prime due pubblicazioni sono state il primo tentativo di passare dal mio taccuino a un qualcosa di più. Non ho mai smesso di scrivere racconti, che nel mio caso penso e metabolizzo nel giro di poco. A volte dalla mattina alla sera. Scrivo di pancia, cerco di capire come dire quello che voglio dire e, di solito, creo una serie di circostanze per cui poi sul finale arrivo al cuore di quello che ho scritto. Ma può non essere sempre così. Nel caso di un romanzo, come Mimosa, il metabolismo è molto più lento e difficile. In alcuni periodi mi sono sentito distante dalla storia che stavo scrivendo, per cui ho dovuto aspettare il momento giusto per continuare. Alla fine, da qualche parte, ho incontrato la Gru e lì è nata la mia prima pubblicazione professionale“.
Che cosa rappresenta per Te scrivere?
“Inizialmente scrivere è stata un’esigenza che non so spiegare bene. Da bambino scrivevo i miei pensieri, poi ho completamente abbandonato per anni. Più avanti, in alcuni momenti, è stato come una liberazione, ma negli ultimi tempi il mio mondo legato alla scrittura è diventato qualcosa di più inquieto e credo sia così perché scrivere è un qualcosa che ti porta inevitabilmente ad affrontare la realtà, specialmente la parte più brutta, con la quale devi per forza fare i conti. L’unico modo per sentirsi liberi è immaginare storie in cui le cose vadano come dovrebbero andare, e cioè in un modo che per me è più giusto. È anche un modo per vivere in un tempo senza tempo, indefinito. Quel desidero che ti lascia lì, in apnea e alla continua ricerca della superficie“..
Hai sempre lavorato come operaio, trovando il tempo per scrivere ed immagino leggere. In quale momento della giornata preferisci scrivere ed hai un luogo segreto dove Ti fermi a raccogliere le Tue idee prima di decidere di pubblicare un libro.
“Da piccolo leggevo, ma non più di tanto. Lo facevo quel tanto che bastava da poter vivere un’avventura mentale per un bel po’ di tempo. Ricordo di essere stato ne Lo scudo di Talos per parecchio. Tuttavia, se prima vivevo in prima persona quelle storie e le facevo mie tanto da diventarne il protagonista, oggi cerco di scrivere racconti o romanzi che se avessi letto da ragazzino mi avrebbero indotto a pormi domande, a cercare la realtà anche dove c’è ombra e non si vede bene. Penso a storie che magari nessuno ti spiega e ad esempio, in Mimosa non è un fiore, ho cercato di mettere qualcosa di diverso, come un senso di giustizia, pulito e sincero. Per le poesie è diverso. È come quando ascolti una canzone. Ti deve dare un’emozione, subito. E ho capito che mi aiuta a spostare il tempo e a portarlo dove voglio io. La maggior parte delle volte scrivo con il telefonino in mano, il modo più veloce per fermare i pensieri quando passano. Ma devo dire che scrivo sempre, in pratica. Anche quando non lo faccio. Mi soffermo, rimugino, elaboro scene o informazioni, cerco di capire qualcosa di più della realtà, tento di immaginare soprattutto le coincidenze mancate. Nelle persone che incrocio, in uno sguardo distratto può esserci la chiave per una bella storia da buttare giù. Chi scrive non credo smetta mai di farlo“.
Quali sono i Tuoi autori/scrittori preferiti?
“Ho una piccola libreria, ma piuttosto eterogenea. È composta da libri che custodisco gelosamente, libri che per la maggioranza erano di mio padre e che rappresentano un po’ tutto il mio percorso di vita e non. Su tutti, Tolkien e Fallaci. Quando capita vado a cercare libri usati e compro quello che più mi attira sul momento. Ho letto racconti bellissimi di scrittori sconosciuti e racconti banali di grandi scrittori. Leggo ciò che piace, ma leggo poco perché non ho mai abbastanza tempo. Ma ci sono libri che sono per sempre“.
Torniamo a “E’ qui che verremo ad abitare”, che cosa rappresenta per Te la poesia?
“La poesia per me è senza dubbio la via più veloce per sentirsi liberi. Mi piacciono i versi chiari, che arrivano diretti al cervello. Che ti danno un’immagine netta, che suggeriscono una verità, che indicano un sentiero in mezzo a una fitta foresta. Non sopporto le poesie scritte in un modo troppo pomposo, perché mi annoia. A volte quando scrivo poesie è solo per me, altre volte per chi non c’è più, ma il più delle volte scrivo per le persone che amo, per dire loro qualcosa senza neanche avere la certezza che un giorno leggeranno. Ho sempre preferito questo modo di comunicare le mie emozioni“
Sono molto curioso e mi piacerebbe conoscere anche se ami ascoltare musica e nel quale qual è i tuo genere musicale preferito.
“Si, mi piace la musica. E mi piace mettere sempre un po’ di musica in ciò che scrivo. Perché la musica fa parte della vita, e ci accompagna sempre. La mia passione più grande sono stati i Guns ‘n Roses. Ma ascolto un po’ di tutto. A seconda dell’umore. Posso passare facilmente dai Metallica a Pierangelo Bertoli“.
Sogni nel cassetto?
“Sono troppi“.
Carlo Banchieri (Livorno, 1980) ha sempre lavorato come operaio portuale.