Storia del fascismo ad Arezzo, il prof. Piccioli: “Il Valdarno fu il cuore nero della provincia”

Il Valdarno fu il cuore nero della Provincia di Arezzo“. Lo ha spiegato il professor Lorenzo Piccioli all’Auditorium Ducci di via Cesalpino, in occasione della conferenza “Origini e consolidamento del Fascismo in Valdarno“, quinto incontro del ciclo dedicato alla storia del fascismo in territorio aretino organizzato dalla Società Storica Aretina.

Non solo. La provincia di Arezzo, in particolare le città di San Giovanni Valdarno, Montevarchi e la stessa Arezzo, presentano una storia fascista vivace e “a sé” rispetto agli altri comuni toscani, sicuramente di importanza minore se confrontata con quella della provincia di Firenze, ma comunque da non sottovalutare

La precocità del fascismo aretino – ha spiegato Piccioli – emerge sin dai numeri. Nel 1940 la federazione di Arezzo produsse l’elenco ufficiale di tutti gli squadristi della provincia. 1637 nomi in tutto. Solo a Montevarchi si trovava l’8,2% del totale mentre a San Giovanni il 6%. Guardando poi al numero di squadristi in rapporto alla popolazione di questi comuni, si nota che a Montevarchi e San Giovanni erano circa il 2,5%, numero maggiore che ad Arezzo dove le camicie nere erano poco più dell’1,2% della popolazione“.

Ma è anche grazie a una documentazione molto rara che oggi è possibile ricostruire le dimensioni, l’importanza e purtroppo anche la violenza del fascismo aretino.

Non tutti lo sanno, ma l’archivio di stato di Arezzo è uno dei pochissimi dove è conservata documentazione in gran parte riferita agli anni “ante Marcia su Roma” (28 ottobre 1922). Inoltre tale documentazione è ancora in parte da “scoprire”, poiché divenuta integralmente consultabile solo dal 26 luglio 2013, ovvero a 70 anni esatti da quando il Governo Badoglio mise fuori legge il Partito Nazionale Fascista (PNF).

Il Professore ha iniziato a studiarla nel 2019. “Questa documentazione – ha detto il Prof. Piccioli – si trova in due fondi. Quello più consistente è composto da 83 faldoni con 6.000 fascicoli personali di persone iscritte al PNF. Vi è poi il carteggio fra il federale di Arezzo e i fasci di combattimento, sopravvissuto in altri 80 faldoni“.

Come si spiega tutto ciò? Con una legge del 1938, con cui il Regime prometteva di conferire un premio di 2 mila lire (ovvero l’equivalente di uno stipendio annuale di un bracciante di allora) a coloro i quali avessero dimostrato di possedere le migliori qualifiche come “squadristi”. In pratica quelli dell’archivio di Arezzo sono i documenti personali che gli allora “candidati” avevano messo assieme per fare domanda.

Per un operaio ricevere quel premio voleva dire assicurarsi il pane per un anno intero e di operai squadristi nel Valdarno aretino ce ne erano tanti. A San Giovanni, coi suoi stabilimenti industriali, si concentrava infatti la classe operaia. Quelli iscritti al fascio erano siderurgici e operai dell’Ilva. Montevarchi era l’opposto, con una concentrazione più piccolo-medio borghese, una partecipazione anche di pubblici dipendenti, militari, e soprattutto con un ceto agrario molto importante.

Proprio queste due città hanno espresso figure importanti del fascismo: Manfredo Chiostri di Montevarchi, Dario Lupi di San Giovanni, e Italo Capanni, nato a Castelfranco Piandiscò.

Alcuni storici – ha detto il Prof. Piccioli – sostengono che il fascismo non fu altro che una reazione alla denigrazione dei combattenti della Prima Guerra Mondiale, i quali sarebbero stati continuamente attaccati da socialisti o anarchici. Ebbene vi assicuro che in tutti i fascicoli dell’archivio di Arezzo che ho analizzato, dove si ricostruiscono le “gesta” degli squadristi aretini, non c’è un solo caso di violenza o spedizione punitiva giustificato perché socialisti o comunisti avevano aggredito militari”.

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