La risposta alla paura inizia in una regione chiamata amigdala.
Le amigdale sono due piccole strutture a forma di mandorla situate in profondità nel cervello. Da qui, tutte le volte che ci troviamo di fronte a uno stimolo che è interpretato come minaccia, parte una complessa reazione a catena: vengono rilasciati ormoni dello stress, si attiva una parte del sistema nervoso – il sistema nervoso simpatico – coinvolto in quelle funzioni definite di attacco o fuga.
Il cervello entra in uno stato di allerta, le pupille si dilatano.
Il respiro accelera.
Aumenta anche la frequenza cardiaca, la pressione e il flusso sanguigno.
Viene mandato più glucosio ai muscoli, mentre organi non vitali, come il sistema gastrointestinale, vengono messi in uno stato di ridotta attività.
Il coronavirus sta creando malattie diffuse: paura, panico ed incertezza.
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Per molti versi è la tempesta perfetta per innescare reazioni cerebrali automatiche e primitive al pericolo.
La narrazione ufficiale racconta che il Sars Cod-2 è pericoloso per la vita perché invisibile, sconosciuto e imprevedibile.
Queste sono tutte condizioni che possono scatenare il sistema di rilevamento delle minacce del nostro cervello.
E due sono le reazioni che si sono palesate in questi ultimi diciotto mesi.
L’adrenalina e il cortisolo hanno pervaso il sistema nervoso, causando un aumento della pressione sanguigna, una respirazione più superficiale e un battito cardiaco più rapido.
I pensieri sono accelerati ed abbiamo sentito continuamente un forte bisogno di fare qualcosa nell’immediato.
Oppure la risposta di congelamento del cervello, modulata dal sistema nervoso parasimpatico, ha immobilizzato la mente ed il corpo.
La paura è certamente un’emozione fondamentale per la vita, è presente in tutti gli esseri umani ed è biologicamente necessaria per proteggere e fronteggiare situazioni di emergenza.
Altresì fattori di stress cronici come il COVID-19 hanno ormai interrotto e stravolto la vita con uno stato di tensione emotiva continuata che è sfociata in moltissime persone in sintomi fisici, emotivi, cognitivi e comportamentali.
Il dato di fatto quindi è che tu abbia contratto o meno il COVID-19, è molto probabile che il tuo cervello sia cambiato negli ultimi mesi e non in direzione di #andratuttobene.
I ViroStar televisivi ci ripetono che la perdita dell’olfatto è un sintomo del COVID-19.
Come parte del sistema responsabile del senso dell’olfatto, il bulbo olfattivo invia informazioni sull’olfatto per essere ulteriormente elaborate in altre regioni del cervello – tra cui per l’appunto l’amigdala – che svolge come anticipato un ruolo importante nelle emozioni.
Oltre ad avere ampie connessioni con altre regioni del cervello, il bulbo olfattivo è ricco di dopamina chimica, che è importante per il piacere, la motivazione e l’azione.
Siamo quindi ormai passati dal Covid-19 al NeuroCovid ovvero stati confusionali acuti e stress psicosociale.
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Alla Washington University è in corso da maggio uno studio secondo il quale la cura post-Covid va reimpostata, onde evitare il rischio di ripetere ciò che è successo con la Sars: con pazienti che avevano cronicizzato i disturbi psichiatrici insorti a seguito dell’epidemia.
Insomma il Covid è probabilmente un virus meno aggressivo di come raccontato dalla narrazione ufficiale ma molto più complesso rispetto a quanto chiarito finora; ed il cervello è senza dubbio un bersaglio più nascosto.
Fra i sintomi neurologici c’è anche la nebbia mentale che include confusione, perdita di memoria e soprattutto disattenzione e dissociazione cognitiva.
Potremmo contrarre il virus Sars Cov-2 senza avere necessità di ospedalizzazione e facendo ricorso a cure domiciliari.
E potremmo contrarre con maggiori possibilità il Neurocovid che attraverso l’instillazione di dosi quotidiane di paura spegne il cervello.