Zucchero bruciato di Avni Doshi

a cura di Roberto Fiorini

 

Nel 1970 il pediatra e psicoanalista britannico Donald Winnicott ha descritto la genitorialità che non dovrebbe mai essere totalizzante, divorante e totalizzante, bensì semplicemente “abbastanza buona“.
Piuttosto che affrettarsi a nutrire immediatamente il bambino, la madre “abbastanza buona” permette al bambino di piangere un pò, insegnando lui la realtà della frustrazione e dell’aspettativa.
Ma cosa puoi imparare un bambino da una cattiva madre?

Avni Doshi è una scrittrice americana nata in New Jersey da una famiglia di origini indiane.
Ha studiato storia dell’arte al Barnard College di New York e alla University College London, prima di trasferirsi a Dubai.
Il suo romanzo d’esordio, Zucchero bruciato – pubblicato in Italia da Nord -, si è subito imposto all’attenzione di pubblico e critica, vincendo numerosi premi ed entrando tra i finalisti del Booker Prize.
Un romanzo bellissimo che parla appunto di quel rapporto unico che lega una madre e una figlia, mettendone in luce la complessità e le contraddizioni, ma anche tutta la forza e l’amore che lo contraddistingue.
Un romanzo di straordinaria profondità, coraggioso ed elegante.

Tara è sempre stata una ribelle, contro tutto e tutti.
Costretta a un matrimonio di convenienza, è scappata di casa, ha avuto diversi amanti, ha scelto di soddisfare i propri desideri, anche se hanno avuto un costo spaventoso.
Una giovane donna irrequieta e scontenta nell’India del 1980, che diventa così affascinata da un guru in un ashram locale da trascurare la sua bambina e rovinando il suo matrimonio.
È assente e incurante, non si prende cura della figlia Antara, che descrive la mamma con “scompariva ogni giorno, gocciolante di latte, lasciandomi senza cibo“.
Tara si è persino ridotta a fare la mendicante e in tutto questo Antara, per lei, è sempre stata un peso, una valigia da portarsi appresso e poco più.

Trent’anni piu’ tardi, quando a Tara viene diagnostica la demenza senile, la figlia adulta Antara decide di portarla a casa con lei.
Ed è proprio il conflitto interiore di Antara che costituisce il tema centrale del romanzo: come ti prendi cura di una madre che non è riuscita a prendersi cura di te?
Mentirei se dicessi che la miseria umana di mia madre non mi ha segnato e ferito“, ammette con sincerità.
Ma la mamma lascia il fornello acceso per tutta la notte, dimentica le incombenze quotidiane, si ostina a telefonare ad amici morti da tempo e non ricorda più i piccoli e grandi gesti crudeli nei confronti della figlia, che sono invece marchiati a fuoco nella memoria di Antara.
Nonostante tutto, Antara si sente in dovere di occuparsi di quella madre e così, mentre la convivenza forzata la induce a ripercorrere le pagine più dolorose del suo passato, cerca di sbrogliare la matassa di tradimenti, riconciliazioni e rotture, e di sciogliere una volta per tutte il nodo di quel legame che ha forgiato il suo cammino, ma che adesso rischia di soffocarla.

Ambientato nella città di Pune, nell’India occidentale, il romanzo alterna scene del passato in cui la giovane Antara soffre l’angoscia dell’abbandono da parte della madre, e il presente in cui sposata con Dilip vive in un appartamento moderno.
Con una lirica bellissima, precisa e senza fronzoli, Avni Doshi scava tra le pieghe di quel rapporto unico che lega una madre e una figlia, mettendone in luce la complessità e le contraddizioni, ma anche tutta la forza e l’amore che lo contraddistingue.

A proposito dell’enigmatico guro del quale di invaghisce Tara in giovinezza, l’autrice lo chiama vagamente “Baba“, ma le attività oscure che descrive all’ashram assomigliano a quelle dei seguaci del controverso Bhagwan Whree Rajneesh documentato nella serie Netflix Wild Wild Country.
Nel romanzo vengono infatti descritti i comportamenti bizzarri dei fedeli – i devoti che ridono scioccamente, applaudono, a seno nudo si contorcono sui pavimenti, indossano jeans sotto i loro kurta, le donne in lacrime che si aggrappano ai piedi del guru.
Le scene dell’ashram sono una parte molto intrigante del romanzo e Avni Doshi abilmente decide di non far mai soffermare il lettore sulla figura del guru, evitando di assecondare appetito e curiosità preferendo rimanere a fuoco sulla storia che le interessa davvero, quella di una madre e di una figlia.
Quando Baba muore, Tara si scaglia contro la figlia di sette anni schiaffeggiandola e chiamandola “piccola cagna grassa“.

Tara è davvero mostruosa, ma la forza del romanzo è proprio nel resistere alla tentazione morbosa di mostrare solo le mostruosità di una mamma sciagurata.
La scrittura scarna e non sentimentale lascia intravedere sempre qualcosa di più.
Quando Antara accusa la madre di pensare solo a se stessa, lei risponde: “non c’è niente di sbagliato nel pensare a se stessi“.
Tara resiste alle abnegazioni del matrimonio e rifiuta gli impegni a cui una maternità obbliga.
E sebbene la malattia di Tara sia una opportunità per ricalibrare la loro relazione, non permette mai ad Antara di recuperare il tempo e l’affetto di cui aveva bisogno da bambina.
Demenza in fondo significa che non c’è resa dei conti, nessun accordo perché la memoria degenerata di Tara cancella la loro storia comune, sia le piccole gioie che le ferite profonde, ma Antara la vive ancora, la elabora, incapace di perdonare.
Un romanzo intelligente, non c’è mai una parola di troppo.

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